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Ci sono professioni che prendono forma con il percorso di crescita dell’individuo. È il caso di Dario Parenti che, sin dalla giovane età, crede che natura e uomo debbano vivere all’unisono. Dario, di madre lingua inglese, ha il vantaggio di confrontarsi da sempre con culture diverse, la chiave anche e, soprattutto, per intraprendere una carriera come ala sua.
Parenti si laurea in Viticoltura ed Enologia presso l’università di Firenze con una tesi sulle dinamiche di export del Chianti Classico nel mercato USA, sancendo, così, un legame profondo con la Toscana e le sue realtà enologiche. Durante il periodo di studi intesse rapporti con colleghi di tutto il mondo su tecniche e protocolli di vinificazione, affinamento e stabilizzazione in bianco e in rosso (in Nuova Zelanda, presso “Villa Maria”, in Francia presso “Domaine de Saint Benezeth” e, successivamente, presso la “Cave cooperative de Cazaubon”).
Parenti rafforza le conoscenza universitarie nella professione di enologo, prima in Toscana presso la “Ruffino spa” e in California presso la “Gallo of Sonoma” (cantina di produzione di qualità del gruppo E&J Gallo) dove perfeziona la conoscenza dei vari aspetti del processo viti-vinicolo, dall’uva alla bottiglia finale.
Dal 2006, con la società Le Uve, opera come consulente vitivinicolo. Dal 2009, è professore di marketing vitivinicolo.
Come e quando è nata la passione per il vino?
In età liceale. Fu all’epoca che l’intreccio fra natura e opera umana nel coltivare vigneti e produrre vino cominciò ad affascinarmi. Essendo di doppia cittadinanza americana e italiana, il vino e la sua produzione rappresentavano per me un forte legame identitario con la mia parte italiana e, ancor più, toscana.
Quando ha deciso che l’enologo sarebbe diventata la sua professione?
Durante il servizio militare, svolto come vigile del fuoco. Provai a fare il test di ammissione al corso di laurea in Viticoltura ed Enologia dell’Università di Firenze che, all’epoca, era a numero chiuso: 20 posti per quasi 200 richiedenti. Studiavo in caserma, fra l’uscita di un intervento e l’altro, e un caro amico di caserma, all’epoca laureando in scienze forestali, mi interrogava sulle varie discipline previste dal test. Per fortuna, riuscii a entrare nel novero dei futuri enologi. A quel tempo non era facile, visto il basso numero di posti disponibili.
Quanto è importante per un enologo entrare in empatia con le persone che curano quella vigna e quelle colline?
Fondamentale. Oggigiorno, i mezzi e le capacità per raggiungere livelli qualitativi quantomeno soddisfacenti sono più o meno a disposizione di tutti. Ma solo quando l’enologo capisce le esigenze, la personalità, l’identità delle persone che lavorano in una specifica vigna e cantina tutti i giorni riesce ad accompagnare, a indirizzare oggettivamente la visione di un produttore nel bicchiere. Assicurandosi sempre che i prerequisiti di qualità siano rispettati ma influenzando il minimo possibile il processo con una propria impronta stilistica.
Nell’immaginario collettivo degli appassionati di vino, dunque, non professionista, è il sommelier la figura più nota all’interno della catena “vino” mentre l’enologo lavora “dietro le quinte”. Quanto, secondo la sua esperienza, le due figure sono (se lo sono), in contrapposizione e quanto, al contrario, sono (se lo sono) complementari?
Le due figure non sono in contrapposizione, anzi. Il sommelier è molto spesso più vicino al mondo reale di quanto non lo siamo noi enologi. Troppo spesso noi ci areniamo nell’interpretazione di parametri tecnici e analisi di peculiarità che poi, all’atto pratico, rischiano di scollegarci dal quadro finale nel suo complesso. Ascoltare amici sommelier durante una degustazione mi arricchisce perché sento quanto,, effettivamente, c’è di reale e concreto in un bicchiere senza eccessive considerazioni tecnico-teoriche, spesso, troppo fini a sé stesse.
Quanto è cambiata, più o meno positivamente, la sua professione, rispetto ai suoi esordi?
Sicuramente, oggi l’enologo deve avere una visione di insieme, tenere in considerazione i molti, complessi aspetti che si dipanano a partire dall’interpretazione di stile, costi e identità di un vino. Certo, è divenuta una professione più interessante ed entusiasmante in quanto si deve sfuggire dall’omologazione generale che, dieci o quindici anni fa, il settore cercava con più insistenza.
Pandemia e stato di salute del comparto vinicolo (Italiano e Internazionale), la sua esperienza attuale cosa può raccontare?
Lavorando con aziende piccole e medie ho potuto toccare con mano la sofferenza del settore della ristorazione, quello che, a livello nazionale, ha, probabilmente, subito più danni in Italia dall’inizio della pandemia. Ma anche sul piano internazionale le aziende hanno risentito dei vari lockdown che hanno interessato praticamente tutti i paesi in momenti diversi. Interessante, però, notare come il nostro settore sia cresciuto sul web, non solo per l’incremento di vendite sui portali dedicati al vino (una tendenza, tutto sommato, prevedibile), ma anche per la qualità e l’evoluzione della comunicazione fra operatori del settore sui social e non solo.
L’enologo è anche una figura controversa, acclamata dai più, ma anche oggetto di forti critiche da altri. Siete accusati di “creare” vini che devono soddisfare i canoni delle guide, insomma piacere a tutti. Fantasie, oppure c’è , in alcuni casi, una base di verità?
Penso sia un concetto fortunatamente superato (almeno lo spero) in quanto anche le guide, come i consumatori, cercano un’emozione, una differenziazione dallo standard di parametri inscatolati nell’omologazione stilistica. Sicuramente, molte aziende cercano ancora questa via, anche a svantaggio di un’espressione territoriale, ma sempre più vediamo la volontà (e la soddisfazione!) di produttori che esprimono un’interpretazione del vino che sia propria e unica.
Un suo pregio e un suo difetto, professionalmente parlando.
Sono molto pignolo: a volte è un pregio, a volte è un difetto.