Credits: © Ph. Luciano Bandini Enologo
La cantina è il cuore pulsante dell’azienda vitivinicola. In essa, si fondono la manualità degli operatori e il sapere dell’enologo. A ciò, si aggiunge la tecnologia, elemento ormai irrinunciabile ma che, secondo alcuni, ha tolto la poesia di un lavoro che si perde nella notte dei tempi.
Chiediamo all’enologo Luciano Bandini il suo parere in merito.
Qual è il suo parere sull’affermazione: “Il vino non si fa più in vigna, ma solo in cantina”? Una frase fatta o nasconde un fondo di verità?
Io direi, semmai, il contrario. Il vino si è sempre fatto in vigna. Diciamo che nel periodo storico degli anni ’50/’70 ce lo siamo un po’ dimenticati. I vigneti in produzione in quel periodo erano improntati più alla quantità che non alla qualità. Pertanto era necessario lavorare molto in cantina per porre rimedio a molte carenze. Dagli anni ’80/’90 c’è stato un profondo rinnovamento dei vigneti, ed è aumentata la sensibilità verso un prodotto biologico e integro. In cantina c’è stata una forte innovazione biotecnologica che ha consentito di lavorare al fine di prevenire e non di curare difetti e malattie. L’obiettivo primario oggi è quello di produrre un’uva con elevati contenuti qualitativi in termini di aroma, struttura e serbevolezza, limitando al minimo gli interventi su di essa. In cantina dobbiamo solo cercare di salvaguardare tutto il potenziale delle uve per riportarlo alla fine in bottiglia, accompagnando il processo di trasformazione e maturazione nella sua evoluzione più corretta. Niente può essere lasciato al caso, ogni difetto organolettico non è sinonimo di naturalità e personalità, anzi è esattamente il contrario.
La tecnologia in cantina quanto ha migliorato e quanto spersonalizzato il lavoro dell’enologo?
Senza la tecnologia non sarebbero mai nati certi vini che hanno fatto la storia e la fortuna di un intero territorio. Senza dubbio, molte innovazioni tecnologiche ci hanno permesso di eliminare molti rischi, e di conseguenza molti difetti organolettici, diventando indispensabili per ottenere vini di qualità. Come tutte le cose però devono essere usate correttamente se non vogliamo banalizzare o spersonalizzare il prodotto. L’enologo non fa un buon lavoro se modifica e personalizza la materia prima a proprio piacimento. L’enologo fa un buon lavoro se, usando la tecnologia, estrae ed esalta tutte le caratteristiche positive delle uve, con rispetto, senza forzature. Non mi piace pensare al vino dell’enologo, ma al vino dell’azienda rappresentativa di un territorio. La tecnologia in realtà ci sta aiutando molto in questo modo di lavorare, ma dobbiamo usarla con buon senso.
Secondo la sua esperienza a quale strumento tecnologico, oggi, è impossibile rinunciare?
Non ho dubbi: il controllo della temperatura. È impossibile pensare di ottenere la pulizia aromatica, l’esaltazione degli aromi primari, la struttura e morbidezza a cui siamo abituati, senza controllo della temperatura in tutte le fasi del processo, dalla macerazione delle uve, alla fermentazione, fino alla maturazione. Affrontare una fermentazione alcolica senza controllo della temperatura sarebbe come affrontare una discesa con un’auto senza freni.
Quali sono le principali criticità di una cantina e qual è il suo modus operandi per porvi rimedio?
A mio parere, il primo punto critico è, ancora oggi, la pulizia. Troppo spesso vedo molta approssimazione. Manca la sensibilità non tanto nel detergere e pulire, quanto nel sanificare. La sterilizzazione di tutte le attrezzature di cantina, e della cantina stessa è fondamentale. In alcuni casi, come per esempio il legno, non è facile da ottenere, perché il legno è poroso e va trattato delicatamente. Ma se non facciamo attenzione il lievito Brettanomyces, ad esempio, può fare danni considerevoli.
Un altro punto critico è il ricevimento delle uve. Anche in questo caso c’è ancora poca attenzione sia alla selezione degli acini sia alla lavorazione delle uve. Importantissimo selezionare ed eliminare gli eventuali acini malati. Anche un 1% di acini attaccati da marciume o muffa, può modificare ed apportare danni al prodotto finale, costringendoci ad usare più solforosa o altri coadiuvanti. Le uve poi, al momento della diraspatura o pressatura, dovrebbero essere trattate molto delicatamente, ed al riparo da ossidazioni, altrimenti si rischia di estrarre sostanze dai gusti amari e astringenti, favorire la produzione di feccia ed enzimi ossidativi, che ovviamente causano un deterioramento della qualità.
Nel suo immaginario, come dovrebbe essere strutturata la sua cantina ideale? È riuscito a trovarla in qualche azienda?
Purtroppo no, non ho ancora trovato la cantina perfetta, molte ci si avvicinano però. La cantina ideale per me è quella che permette, innanzitutto, di superare i punti critici. Quindi, consentire una perfetta sanificazione, e pochissima movimentazione delle parti solide, cioè delle uve, prima della loro trasformazione in fase liquida. Bene, quindi, le cantine su due livelli per sfruttare la gravità in fase di ricevimento. Per la movimentazione del mosto o del vino a mio parere invece non ci sono problemi, abbiamo a disposizione pompe veramente rispettose e delicate. Ovviamente, anche una cantina con controllo di temperatura in ogni fase di lavoro. Cemento o legno sono da preferire all’inox.