Credits: © Ph. Vincenza Folgheretti Enologa
La cantina è il cuore pulsante dell’azienda vitivinicola. In essa, si fondono la manualità degli operatori e il sapere dell’enologo. A ciò, si aggiunge la tecnologia, elemento ormai irrinunciabile ma che, secondo alcuni, ha tolto la poesia di un lavoro che si perde nella notte dei tempi.
Chiediamo all’enologa Vincenza Folgheretti il suo parere in merito.
Qual è il suo parere sull’affermazione: “Il vino non si fa più in vigna, ma solo in cantina”? Una frase fatta o nasconde un fondo di verità?
A mio parere dire che “il vino si fa in cantina” è un po’ azzardato. È certo che oggi le tecnologie ci consentono di fare veramente dei miracoli a volte, ma è pur vero che se dobbiamo parlare di identità, personalità, longevità e quant’altro possa dare unicità al prodotto, è di fondamentale importanza partire da un’ottima materia prima e per “ottima” non si intende soltanto la sanità dell’uva, che è la conditio sine qua non, ma l’equilibrio produttivo stesso dato dalla pianta, terreno, microclima per finire poi nell’uva, se vogliamo , il cosiddetto terroir.
E la stessa cosa vale, seppur in maniera diversa, per quei vini più semplici, per i quali si cerca beva, leggerezza, gradevolezza. Tutto parte dalla vigna.
La tecnologia in cantina quanto ha migliorato e quanto spersonalizzato il lavoro dell’enologo?
Non ritengo affatto che la tecnologia abbia spersonalizzato il lavoro dell’enologo, anzi direi che è diventato un ottimo alleato. Partiamo dal presupposto che esistono diverse categorie di vino, ognuna delle quali va ad individuare un target di consumatori ben preciso. Ecco, è da lì che bisogna partire: qual è l’obiettivo? Cosa si vuole ottenere? Come lo si vuole ottenere? Ecco che la tecnologia, oggi, ci viene in risposta a queste domande e, a seconda dell’utilizzo che ne facciamo, possiamo ottenere un prodotto piuttosto che un altro.
Non dimentichiamo inoltre che è proprio grazie alla tecnologia che oggi beviamo vini di tutto rispetto, sicuramente ognuno con il proprio stile ma, tendenzialmente, privi di macro difetti, cosa che in passato era molto discutibile.
A ogni modo, qualunque sia la strada che si voglia percorrere, l’ultima parola è sempre dell’enologo.
Secondo la sua esperienza a quale strumento tecnologico, oggi, è impossibile rinunciare?
Credo che il controllo della temperatura possa mettere la maggior parte di noi d’accordo.
A parità di materia prima la gestione della temperatura ha una fortissima incidenza sul risultato finale, sia fisico che microbiologico. Il controllo della temperatura non soltanto ci consente di gestire in qualche modo il bouquet del vino (basti pensare ad un bianco vinificato a 14°C e allo stesso bianco vinificato a 20°C, il risultato organolettico sarà completamente differente), ma ci consente anche di ovviare ad eventuali arresti di fermentazione, spesso causati proprio dalle temperature elevate che si raggiungono durante la fase di fermentazione alcolica, che mettono seriamente a rischio la salubrità e la qualità del prodotto stesso.
Quali sono le principali criticità di una cantina e qual è il suo modus operandi per porvi rimedio?
I punti critici che, spesso, riscontro sono legati principalmente alla gestione degli spazi, non soltanto in cantine storiche, ma anche di recente costruzione.
Nelle cantine storiche, per ovvi motivi, gli spazi non sempre sono gestiti in maniera ottimale. Mi riferisco non soltanto alla logistica di lavoro, legata all’ampiezza vera e propria della struttura, ma alla capacità dei contenitori stessi.
Oggi, la tendenza porta alla ricerca dell’unicità del prodotto, partendo già dalla vigna, la cosiddetta zonazione. Sappiamo che a parità di varietà, il terreno, l’esposizione, l’altitudine, il portainnesto, il clone e qualsiasi variabile si possa presentare, apporta caratteristiche diverse al prodotto.
Oggi, l’obbiettivo, per tantissime aziende, è l’unicità, non più solo prodotti buoni e gradevoli, ma anche prodotti che abbiano la propria identità territoriale. Per ottenere questo risultato si ha sempre di più l’esigenza di vinificare ogni partita separatamente, in modo da ottenere da ognuna il massimo del risultato.
Per far questo è ovvio che si ha la necessità di avere più contenitori, magari anche di dimensioni più piccole, che, di conseguenza, occupano più spazio. Non sempre questo è possibile per cui si cerca di trovare il giusto compromesso, magari mettendo insieme uve provenienti da appezzamenti che, negli anni, hanno dato caratteristiche più o meno simili o, comunque, vinificare insieme masse per le quali si sa già qual è la destinazione finale.
Nel suo immaginario, come dovrebbe essere strutturata la sua cantina ideale? È riuscito a trovarla in qualche azienda?
La cantina perfetta, a mio parere, è quella costruita intorno al prodotto, nel vero senso della parola. Nel momento in cui parte un progetto imprenditoriale di tipo enologico, la prima cosa che bisognerebbe fare è capire cosa si vuole, come la si vuole e in quanto tempo. Avendo ben chiari questi concetti si comincia, letteralmente, a costruire la cantina, a partire dalla progettazione degli spazi, per finire poi con macchine e attrezzi, tenendo ovviamente in considerazione il turn over del prodotto.
Non esiste un unica cantina perfetta, esiste la cantina creata ad hoc per l’obbiettivo enologico che si vuole raggiungere e devo dire che, ultimamente, ne vedo sempre più spesso. Così come mi capita di vedere cantine esteticamente bellissime, ma poco funzionali.
La cantina deve essere prima di tutto un centro di lavoro creato per produrre vino nel miglior modo possibile e per ottenere il massimo del risultato in termini qualitativi, di tempo, di gestione del lavoro, insomma tutti quegli elementi che creano l’intero il processo produttivo, dall’arrivo uve fino alla commercializzazione. Ovviamente, questo non esula dall’architettura, che può essere moderna, tradizionale, in qualsiasi modo si voglia, ma è importante che ci sia stretta collaborazione e confronto tra chi andrà a creare la struttura e chi si occuperà della parte produttiva.