Credits: Vittorio Festa Enologo
Se nella seconda metà dell’Ottocento la viticoltura europea ha dovuto affrontare il problema della fillossera, oggi, e nei prossimi anni, dovrà confrontarsi con un nuovo ostacolo: il cambiamento climatico.
Un problema, che necessita di politiche comuni a livello globale.
Per comprendere come, il settore vitivinicolo nazionale stia analizzando e valutando i primi importanti segnali di mutamento climatico, abbiamo chiesto il parere all’enologo Vittorio Festa, che ci illustra la sua esperienza.
Il cambiamento climatico ha alterato in modo significativo importanti aree del nostro pianeta. Tali cambiamenti, secondo la sua esperienza professionale, si stanno già verificando anche in Italia?
L’Italia risente e ha risentito, come tutti gli altri paesi, dell’aumento della temperatura e, di conseguenza, di tutto il cambio che, lentamente, stiamo vedendo in tutto il mondo. La figura dell’agricoltore, vivendo in campagna, è quella che percepisce in primis i segnali del cambiamento. Quindi, chiaramente, abbiamo già avuto modo di vedere alcune delle modifiche in ambito agricolo. Tra queste abbiamo periodi siccitosi molto prolungati, precipitazioni abbondanti e violente, gelate tardive, che portano ad un cambiamento dell’intero ecosistema. Basti pensare alla difficoltà delle api di sopravvivere a tal punto che, oggi, chi ha l’alveare è costretto ad alimentarle anche nel periodo estivo. Ma non
solo, anche la tignola ha dei voli anomali, le falde freatiche si sono abbassate o addirittura sparite.
Vi sono interventi, anche in via preventiva, che è conveniente adottare per iniziare a compensare tali mutamenti del clima?
Oggi, sui vigneti esistenti stiamo già intervenendo sulla gestione del suolo (lavorazione del terreno, inerbimento con la scelta di varietà che trattengano l’acqua, concimazioni organiche e gestione della pianta) con degli interventi agronomici in generale, tra i quali la gestione della chioma per evitare scottatura degli acini e fertilità delle gemme ma, soprattutto, per migliorare l’attività fotosintetica della pianta e inoltre con le potature tardive si possono prevenire i danni dalle gelate. Per l’irrigazione, ove ce ne fosse bisogno, il mio consiglio è quello di intervenire, seppur con costi importanti ed elevati, con l’irrigazione sotterranea piuttosto che quella aerea, in quanto permette di contenere e di risparmiare i consumi di acqua (un terzo della quantità) in modo considerevole e di poter intervenire risparmiando sulle ore lavoro. Inoltre, anche la concimazione è facilitata. Per i vigneti nuovi bisogna scegliere portainnesti adeguati, biodiversità con orientamento nord sud, le varietà autoctone potrebbero aiutare. In alcuni casi, in altri paesi si sono alzati di quota. Ovviamente, questi sono interventi da fare sui nuovi impianti, tenendo presenti luogo, irrigazione, sistema di allevamento, alzarsi di quota e, soprattutto, osservare l’andamento climatico del luogo in cui si va ad impiantare.
In alcuni paesi del Nord Europa (Danimarca e Svezia), seppur in minime quantità, hanno iniziato a produrre vino. Studi ipotizzano che tra 50 anni il clima di questi Paesi sarà a livello della Francia del Nord. Cosa pensa di tali studi e, a suo parere, potranno diventare le nuove frontiere del vino in Europa?
Già oggi la coltivazione della vite è possibile laddove sino a trent’anni fa non sarebbe stato immaginabile. Sembra incredibile ma capita che alcune aree geografiche un tempo fredde stiano ora diventando adatte alla produzione di vino. L’Inghilterra, ad esempio, ha visto una rapida crescita dei vigneti lungo la costa meridionale e ha iniziato a produrre spumanti. Sono stati piantati vigneti anche in Belgio, Danimarca, Svezia e Norvegia. In Argentina e Cile dove è già storica la produzione, i produttori di vino si stanno spingendo sempre più velocemente fino alla Patagonia. Dal punto di vista della produzione sicuramente possono diventare nuove frontiere, come lo sono già la Bulgaria, la Moldavia, date le loro caratteristiche pedoclimatiche. A mio avviso, quello che mancherà sarà il racconto. Daranno sicuramente grandi vini, grandi produzioni ma mancherà la storia e l’appeal del Made in Italy. Oggi, anche in altri
paesi iniziano a parlare di vini autoctoni ma la biodiversità italiana nella sua ricchezza, rimane il patrimonio più importante che abbiamo da offrire, per cui è difficile competere.
In quanto alla realtà italiana, è a conoscenza della programmazione o della realizzazione di nuovi impianti ad altezze sul livello del mare sino a “ieri” impensabili? Come ipotizza questo cambiamento e quali saranno le difficoltà di questo “riadattamento” enologico?
In alcuni casi, in altri paesi si sono alzati di quota. Ovviamente, questi sono interventi da fare sui nuovi impianti tenendo presenti luogo, irrigazione, sistema di allevamento, alzarsi di quota e soprattutto osservare l’andamento climatico del luogo in cui si va ad impiantare. Il discorso dei vigneti ad alta quota, personalmente, l’ho sempre apprezzato e con alcune aziende abbiamo anche promosso i vini di alta quota che hanno un buon successo anche perché sono varietà/vitigni dove l’intervento dell’uomo è ridotto per alcuni versi ma, soprattutto, non sono OGM free. Si entra, quindi, in un’ottica di biodiversità elevatissima e sono da considerarsi vini di nicchia. Di esperienze ce ne sono già in essere e continueranno ad aumentare, personalmente sto già lavorando a dei nuovi impianti da utilizzare al di sopra dei 600 metri. Credo molto in questa tipologia di vino. Quindi, ci saranno cambiamenti ma saranno a medio lungo termine , in realtà, la vigna è una pianta che ha vita lunga di almeno trent’anni, pertanto, quindi ci sarà un minimo di transizione dai vigneti esistenti a quelli di nuovo impianto destinati ad adattarsi ai cambiamenti climatici, per il futuro questi cambiamenti saranno più evidenti ma il passaggio sarà graduale.