Vino & Altre Storie

Giancarlo Gonizzi: il vino di Garibaldi

Written by Veronica Lavenia

Giancarlo Gonizzi, autore del volume “Il vino di Garibaldi. Alla ricerca di un mito fra Parma e Caprera” (Wigsbert House), ha dedicato la sua vita professionale alla cultura nel senso più ampio del termine. Consulente di aziende, Fondazioni ed enti pubblici, ha curato numerose mostre, allestimenti di musei, siti internet, eventi e pubblicazioni in ambito locale e nazionale.

Ha, inoltre, curato l’ordinamento di diversi archivi di impresa: l’Archivio Storico Barilla, che ha contribuito a fondare nel 1987 e a valorizzare, l’Archivio Storico delle Fiere di Parma, l’Archivio Storico della TEP (Azienda trasporti pubblici di Parma), l’Archivio Storico del Gruppo SAME di Treviglio (BG).

Attualmente, è curatore della Biblioteca gastronomica di Academia Barilla, coordinatore dei Musei del Cibo della provincia di Parma, coordinatore del progetto Città della memoria e membro dal 2003 della Commissione Toponomastica del Comune di Parma.

In questa intervista, Gonizzi racconta la nascita del suo romanzo. Un lavoro molto interessante che, conferma, la maestria dell’autore, nel sapere dosare abilmente le conoscenze acquisite in anni di studio e pubblicazioni, con l’esigenza di rendere fruibile tale sapere ai lettori di varia estrazione.

Come nasce l’idea di scrivere un romanzo-saggio che, attraverso il profilo di Garibaldi, vuole essere anche un tributo al mondo del vino, in particolare della Malvasia di Parma?

Nel 2013, mentre raccoglievo la documentazione per “disegnare” il percorso del Museo del Vino di Sala Baganza, uno dei sette Musei del Cibo della provincia di Parma, mi imbattei in una serie di resoconti otto-novecenteschi pubblicati nel tempo, sulla visita di Garibaldi a Maiatico. Il museo – operazione non facile raccontare il vino di Parma, fino a ieri “Cenerentola” della Valle del Cibo e, in realtà, ricchissimo di storia, tradizione e qualità – poteva solo dare un rapido cenno di quella visita, giusto una foto e una didascalia.

A museo felicemente inaugurato nel maggio del 2014, nel riordinare le carte, il dossier Garibaldi assunse la sua dimensione reale davvero cospicua, fino a quel momento non percepita appieno. Peccato non approfondire. Occorreva uno strumento diverso. In giugno, ricevetti la visita di un Editore a cui tratteggiai, per sommi capi, la vicenda e che mi chiese di raccontarla in un libro, storicamente corretto, ma che fosse anche agile e piacevole. L’estate successiva, mi portai la cartella in montagna, nella nostra piccola casa fra i monti della Valle dei Cavalieri e, approfittando di una decina di giorni di pioggia, stesi la prima bozza del libro, a pochi passi da quella Casa Basetti dove avevo da poco ordinato una straordinaria raccolta di cimeli garibaldini e dove avevo scoperto, in cantina, le bottiglie dell’epoca di Garibaldi che ora sono esposte al Museo del Vino. Il legame fu spontaneo e folgorante e ne nacque un racconto di fantasia, con le note bibliografiche e le fonti archivistiche. Una storia vera al 90% dove la fantasia – e il calcolo delle probabilità – aveva “cucito” le lacune dei documenti per far procedere speditamente la narrazione. Una “storia” che “va giù” come la Malvasia.

Un Garibaldi inedito per molti che si scopre amante del vino e rimane affascinato dalla Malvasia, tanto da comunicarlo in una lettera alla Marchesa Teresa- Araldi Trecchi di cui fu anche ospite a Maiatico dal 27 al 29 aprile 1861.  Quanto è stato complesso (se lo è stato) “disegnare” attraverso le parole un Garibaldi estimatore di vino?

Quando Garibaldi giunse in incognito alla stazione ferroviaria di Castel Guelfo, dove la Marchesa Trecchi aveva inviato una carrozza ad attenderlo, venne riconosciuto da un facchino e la voce si sparse “con la prontezza dell’elettrico” (cioè del telegrafo) per tutta la regione. E da tutte le località della provincia giunsero reduci e delegazioni in visita. È attraverso le loro parole ammirate – o quelle più disincantate della stampa liberale – che ha preso corpo la figura di Garibaldi. Quindi, non una mia interpretazione, ma, piuttosto, quella dei suoi contemporanei. Lettere, dispacci, corrispondenze giornalistiche, scritte con una lingua ormai remota, hanno tratteggiato il profilo di un uomo attento all’innovazione e alla tecnologia, ma capace, in ogni luogo dove si recava, di cogliere il meglio e di servirsene per i suoi campi. Ovunque andasse conosceva qualcuno. E non dico che qualcuno lo riconosceva. Dico che conosceva qualche persona del luogo. Tale era la sua capacità magnetica e attrattiva nei confronti di una generazione e di una nazione. Li conosceva e se li ricordava. E loro non potevano dimenticarlo. Il sigaro fumato da Garibaldi e conservato come reliquia per generazioni ci mostra un mondo capace di grandi passioni e grandi slanci. Io mi sono limitato a interrogare i testimoni, mettendoli in fila.

©Teca in vetro trattenuto da striscie di tessuto incollato, fondo in legno e modello in vetro soffiato, carta e seta di grappolo di Malvasia di Candia.

Accanto a Garibaldi, altre figure di rilievo si intrecciano nel racconto. Quale, per lei, è tra le più interessanti?

Ho immaginato di fare incontrare a cena tre personalità di spicco della fine dell’Ottocento a Parma e non solo: il senatore Gian Lorenzo Basetti (1836-1908), medico, garibaldino, stimato a tal punto da Garibaldi da nominarlo responsabile del servizio sanitario nella campagna dei Vosgi del 1870-71; Luigi Pigorini (1842-1925), archeologo e antropologo, direttore del Museo d’antichità di Parma, “scopritore” delle terramare e ideatore del grande museo di paletnologia di Roma che oggi porta il suo nome; e Pellegrino Strobel (1821-1895), naturalista insigne, tra i fondatori dell’Università di Buenos Aires e quindi rettore dell’Ateneo cittadino. Tre voci diverse per tratteggiare un mondo e una cultura che stava immaginando il “nuovo” in quell’Italia appena nata. Ma intorno a loro “girano” altre figure straordinarie: la Marchesa Teresa Trecchi (1827-1894), all’epoca considerata la donna più bella d’Italia, che mai volle posare per un ritratto; il fratello Gaspare (1813-1882), intendente di Garibaldi e di re Vittorio Emanuele II  – oggi lo definiremmo un “infiltrato” dell’intelligence –  che informava direttamente il re degli sviluppi dell’impresa dei Mille “saltando” Cavour, amico personale di Napoleone III, con un trascorso nella legione Straniera, famoso, nella natia Cremona, perché girava scortato da due schiave africane e con due iene al guinzaglio; il più “normale” Luigi Maestri (1837-1912), che dedicò la sua esistenza a selezionare nei campi di Valera, alla periferia occidentale di Parma, il miglior Lambrusco, che ancor oggi porta il suo nome. Sulla sua tomba, al cimitero di Valera, sono scolpiti tralci e pampini di Lambrusco.

Quanto è tutt’ora importante la figura di Garibaldi per la Malvasia di Parma?

A Garibaldi la Malvasia coltivata a Maiatico piacque davvero, ma gli dovette piacere assai anche Teresa Trecchi che lo ospitava, se per dieci anni continuarono a scriversi lettere appassionate, in cui il ricordo di quel soggiorno dell’aprile 1861 si stempera regolarmente nelle vicende delle piantine messe a dimora dell’Eroe dei Due Mondi sul duro suolo di Caprera. E lì, ancora stanno, a distanza di oltre un secolo. È probabile che quelle righe sulle viti nascondessero anche altri significati che a noi oggi sfuggono. Ma se l’immagine di un Garibaldi, accaldato, in canottiera, seduto sotto il grande albero secolare di castagno nel giardino di Villa Trecchi, intento a sorseggiare Malvasia colpì profondamente le centinaia di persone convenute in “pellegrinaggio” per poter vedere l’Eroe, allora, quel vino è parte integrante del mito e protagonista, a suo modo, di una pagina di storia immortale.

Ci sono altre “storie di vino”, altrettanto affascinanti che le piacerebbe un giorno raccontare in un libro?

Il mondo del vino trasuda di “eroi sconosciuti”, personaggi di grande spessore e capacità che, nel corso del tempo, hanno saputo unire in maniera indissolubile la propria esistenza alla pianta della vite. Sul nostro territorio penso ad Henri Caumont (1821-1896), ingegnere francese, giunto nelle nostre terre per seguire i lavori della linea ferroviaria Parma-La Spezia e che, innamoratosi della giovane Contessa Elisa Caimi, per lei avrebbe abbandonato binari e locomotive, per dedicarsi, dopo averla sposata, a produrre, in una vigna “recintata” e piccolissima, minime quantità di un vino così straordinario da meritarsi nel 1884 la medaglia d’oro all’Esposizione internazionale di Londra e quella d’argento nel 1887 a Parigi. Una bottiglia, con la sua etichetta originale e la riproduzione delle medaglie, è esposta al Museo del Vino di Sala Baganza. Stappandola idealmente ne uscirebbe una storia indimenticabile. Come la Malvasia lo fu per Garibaldi.

About the author

Veronica Lavenia

PhD.
Writer, book author, essayist and magazine contributor, some of her works have appeared in the most popular International magazines.
Digital Content Manager and Communication Manager at "The Wolf Post", since the birth of the platform.

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